Data inizio
12 Feb 2024
Rassegna stampa

La direttrice di Slow Food Italia interviene sulle manifestazioni degli agricoltori di questi giorni.  Se mettiamo insieme il calo di produzione legato ai continui eventi estremi (siccità, grandinate, alluvioni), i prezzi pagati ai produttori sempre più bassi, il regolamento che impone calibri per la frutta e la verdura venduta nella grande distribuzione e costringe le aziende a buttare tra il 20 e il 30% del raccolto, l’aumento dei costi per fertilizzanti, fitofarmaci e carburanti, la tempesta è perfetta.

In una situazione del genere, imporre limitazioni di carattere ambientale non poteva che avere un effetto dirompente, e così è accaduto. Nel mirino sono finite proprio le norme per preservare la fertilità della terra, vitali per il futuro degli agricoltori.

Chi ci perde? Quasi tutti: gli agricoltori, destinati a vivere di sussidi (finché ci saranno) per pagare pesticidi e fertilizzanti, i cittadini, che faticheranno sempre di più a scovare cibi sani e di qualità, le giovani generazioni che erediteranno suoli desertificati e acque inquinate.

Chi vince? L’agroindustria, la grande distribuzione e le multinazionali che controllano il mercato di semi, fertilizzanti e fitofarmaci.

Il prezzo del cibo

Nel settore agricolo i conti non tornano da troppi anni. Molti agricoltori non riescono a coprire i costi di produzione. Un litro di latte fresco costa circa 2 euro, ma il prezzo pagato agli allevatori è di 55 centesimi. Per ogni litro di latte solo il costo dei mangimi è di 23 centesimi. Uno dei cartelli più fotografati in questi giorni denuncia la situazione del frumento. Da 100 kg di grano tenero si ottengono 84 kg di pane. Per quei 100 kg gli agricoltori ricevono 25 euro, mentre il prezzo medio di 84 kg di pane è di 350 euro.

La soluzione?

Garantire prezzi equi agli agricoltori, premiare chi produce cibo sano nel rispetto del suolo. Educare i consumatori, perché siano in grado di scegliere la qualità. Migliorare la trasparenza delle etichette. Inserire l’educazione alimentare come materia obbligatoria nelle scuole.

Il cibo importato

I prodotti che importiamo arrivano da coltivazioni che non rispettano le regole valide in Europa. Un esempio? L’83% della soia per i nostri allevamenti arriva dal Sudamerica. In particolare, il 40% arriva dal Brasile, dove l’area deforestata e coltivata a soia è più vasta della Germania. Il Brasile è anche il più grande consumatore di pesticidi del mondo. Alcuni di questi contengono principi attivi micidiali, come il paraquat. Pesticidi proibiti in Europa da decenni, ma venduti al Brasile da multinazionali europee e ricomprati in forma di soia.

La soluzione?

L’Europa deve introdurre le clausole specchio. Queste norme stabiliscono che i prodotti alimentari importati debbano rispettare gli standard sanitari, sociali e ambientali europei. Alcune sono già state previste (ad esempio sulla carne bovina trattata con ormoni), ma devono essere introdotte per tutti i prodotti.

I pesticidi

Residui di pesticidi si trovano ovunque: nel suolo, nelle acque, nei cibi, persino nel sangue umano e nei capelli.

Tra i più diffusi, il glifosato, un diserbante che passa dalle foglie a tutta la pianta e al suolo, dove rimane per anni. Secondo il Centro di Ricerca sul Cancro è “probabilmente cancerogeno”, ma si parla meno dei suoi effetti sull’ambiente, che invece sono certi. Il glifosato aumenta la concentrazione nel suolo di nitrati (del 1.592%) e di fosfato (del 127%), riduce la capacità delle piante di assorbire nutrienti e fissare l’azoto, danneggia gli organismi viventi nel suolo e nelle acque.

Eppure, qualunque tentativo di ridurre l’uso dei pesticidi finisce male. A dicembre l’uso del glifosato è stato autorizzato per altri 10 anni e ora è stata ritirata la proposta che mirava a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030 e a ridurre del 65% quelli più pericolosi.

La soluzione?

Un’agricoltura diversa è possibile. Lo dimostrano i dati di crescita dell’agricoltura biologica, di cui l’Italia è tra i leader mondiali. La superficie agricola coltivata senza l’uso della chimica di sintesi nel 2021 ha raggiunto il 17% e punta a raggiungere il 25% nel 2027. Bisogna sostenere le aziende affinché possano modificare il modello produttivo, passando dalle monocolture a pratiche agroecologiche, con più biodiversità, rotazioni, uso equilibrato dell’acqua.

Pagati per non coltivare?

La norma che richiede di lasciare a riposo il 4% del terreno vale solo per chi ha più di 10 ettari di seminativi. Il 4% di terreno improduttivo comprende fossati, margini dei campi, siepi, alberi, boschetti, stagni, muretti. Ovvero tutto ciò che preserva la biodiversità, gli insetti impollinatori, la bellezza dei paesaggi.

La soluzione?

Questa norma va salvaguardata a tutti i costi. Il riposo del terreno, assieme alle rotazioni, è un elemento essenziale per salvaguardare la fertilità e sta alla base dell’agricoltura da millenni. Un suolo che contiene meno del 2% di sostanza organica è degradato, anticamera della desertificazione. In Italia circa l’80% dei terreni agricoli è sotto questa soglia.

Lasciare a riposo una percentuale dei terreni è un’azione che fa bene alla terra, alla biodiversità, alla bellezza del paesaggio, e che perdipiù viene finalmente pagata agli agricoltori.

Fonte: Slow Food