In un interessante intervento, la presidente di Slow Food Italia presenta il suo punto di vista e sottolinea per quale ragione debbano interessarci le proteste dei trattori. Perché circa otto miliardi di persone si confrontano quotidianamente con il cibo. Quindi ci rapportiamo con l’agricoltura, troppo spesso senza nemmeno rendercene conto. Con i contadini, con le loro condizioni di lavoro e di vita, senza entrare mai con loro in contatto. E, indirettamente, con l’ambiente e con gli ecosistemi dalla cui salute dipende la nostra. L’arrivo dei trattori in città è il frutto di decenni di politiche miopi, assistenzialiste, senza visione, sull’agricoltura. Se si crede che l’agricoltura italiana sia, com’è vero, un’agricoltura di qualità, dobbiamo definire cos’è la qualità nel 2024.
L’Italia produce materie prime e trasformati eccellenti, prodotti apprezzati dal punto di vista organolettico e che portano con sé il fascino del Made in Italy. Siamo il Paese dell’Unione europea con la più ampia superficie dedicata al biologico e il secondo al mondo per superficie coltivata con metodi biodinamici. Questo significa: da una parte che la qualità così apprezzata all’estero è in parte frutto di una buona agricoltura, attenta alla relazione con l’ambiente e rispettosa degli ecosistemi; dall’altra che l’agricoltura che lavora insieme e non contro la Natura, è anche economicamente sostenibile. E chi produce nel solco dell’agroecologia, tutelando fertilità dei suoli, biodiversità e risorse idriche, lo fa per convinzione, per senso di responsabilità, senza essere sostenuto dal sistema dei finanziamenti che finora sono andati a premiare soprattutto aziende agricole molto estese.
Basti pensare che è il 20% delle grandi imprese italiane a raccogliere l’80% dei sussidi, laddove circa il 70% delle aziende agricole lavora meno di 5 ettari ciascuna, ma impiega il 40% degli occupati nel settore e fa il 30,6% della produzione nazionale, che vale circa 20 miliardi di euro. L’attuale stato di degrado ambientale, sociale ed economico generato dal modello produttivo agroindustriale, non è inevitabile: ci preme rammentare infatti che, in ambito di nutrimento, «l’agricoltura orientata al massimo profitto, e in aperto conflitto con gli equilibri del Pianeta, ha non più di un secolo di vita» (Piero Bevilacqua, Un’agricoltura per il futuro della terra, Slow Food Editore).
È il modello di produzione alimentare industriale che sta collassando: quel modello che dalla Rivoluzione verde in poi, negli anni Sessanta, ha cercato di spostare sempre di più il settore primario nell’ambito industriale e di sottometterlo alle regole di mercato. Effettivamente dagli anni ‘50 al 1985 le rese cerealicole mondiali crebbero del 250%, a fronte però di input energetici aumentati del 5000%. Ma l’assente principale di queste settimane è stata la Grande Distribuzione Organizzata che, in Italia, vende circa il 75% del cibo e delle bevande consumate! Si calcola che il ricarico applicato nella vendita arrivi fino al 300%, con una serie di paradossi e sprechi legati al calibro, alla forma, al colore, nei prodotti ortofrutticoli per esempio.
La Fao ci ricorda in proposito che nel 1910 la percentuale del prezzo di un bene agricolo che finiva nelle tasche del produttore era del 40% circa. Nel 1997 questa percentuale si è ridotta al 7%. E ora è scesa ancora di più.
Il nemico non può essere il Green Deal che non ha mai visto la luce: stanno venendo al pettine i nodi prodotti da decenni di miopia, l’agricoltura è stata depauperata in ogni modo, la classe politica non si è curata del valore e della qualità del cibo quindi del modo in cui veniva prodotto, e non ci si è occupati delle condizioni di vita e di lavoro di chi coltiva, soprattutto nelle aree interne, che sono comunque il 70% dei territori italiani.
Continuare con le pratiche che ci hanno portato a questo livello di degrado del suolo, della biodiversità e dell’ambiente, è una sconfitta per gli agricoltori e per i cittadini che avranno sempre più difficoltà a trovare cibo non omologato e di qualità. Ma, soprattutto, lasceremo in eredità un ambiente degradato se non invivibile. Eppure si vuol promuovere una narrazione surreale per cui la tutela ambientale (biodiversità, aria, acqua e suolo) sia contro l’agricoltura quando, se c’è una categoria di persone che ha bisogno della natura, sono proprio i contadini!
Questa contrapposizione strumentale tra contadini e ambiente fa un favore a chi vende grandi macchinari, a chi produce fertilizzanti e pesticidi, a chi specula, a chi ha brevettato le sementi e le vende ogni stagione, a chi ha il controllo totale della filiera alimentare. E le risposte semplicistiche che fanno passi indietro sulla conversione ecologica (è di pochi giorni fa il rinvio a data da destinarsi la nuova legge europea per il ripristino della natura), al solo fine della prospettiva elettorale, oggi, sono da considerarsi scellerate.
Abbiamo la grande opportunità di scegliere: è inevitabile nonché vitale avviare una reale conversione agricola, che deve essere sociale ed ecologica, quindi equa e concreta, e sostenere sistemi che arricchiscono la vita del suolo e quella delle comunità.
Abbiamo bisogno di più contadini, di più agricoltura biologica, biodinamica e di agroecologia. La politica deve agire per apportare cambiamenti sistemici che valorizzino e sostengano questi percorsi, favoriscano una ricerca scientifica che operi a sostegno di un’agricoltura virtuosa; abbiamo bisogno di misure che supportino il lavoro e la vita degli agricoltori e riconoscano il loro lavoro anche come fornitori di servizi ecosistemici.
La società civile nel momento in cui capisce cosa c’è in ballo non può che allearsi coi contadini per sostenere questo sforzo di conversione ecologica e sociale insieme.
Fonte: Il Manifesto /Extraterrestre