Data inizio
31 Ott 2023
Rassegna stampa

Mi è capitato sottomano un articolo di Le Scienze del 1987 dal titolo “La monocoltura”, in cui si legge che uniformità colturale e monocolture (la successione della stessa specie, anno dopo anno, nello stesso campo) sono uno degli effetti della modernizzazione agricola che ha permesso la crescita di produttività, grazie al supporto della chimica di sintesi. La specializzazione colturale ha permesso l’aumento delle superfici aziendali e scollegato definitivamente allevamento e agricoltura. Questo legame, fondamentale per assicurare la fertilità del suolo, infatti non è più necessario proprio grazie ai fertilizzanti. Tra le cause individuate nella diffusione delle monocolture gli autori ricordano la meccanizzazione e le economie di scala.

L’articolo, però, già allora avanzava alcune critiche al modello, indicando effetti collaterali come l’erosione del suolo e la perdita di sostanza organica. E proponeva una serie di tecniche alternative come le rotazioni, appropriati avvicendamenti colturali e una copertura del suolo continua.

Insomma, anche 35 anni fa era evidente la strada che aveva intrapreso l’agricoltura e come fosse necessaria una drastica correzione di rotta. Da allora, altri fattori sono diventati rilevanti nel favorire la specializzazione colturale e le monocolture in una corsa senza senso verso l’uniformità. La grande distribuzione organizzata, con il suo sistema di logistica, e la concentrazione del mercato dei fattori produttivi (sementi, fertilizzanti e pesticidi) lasciano sempre meno scelte agli agricoltori. Nel 1987 gli autori dell’articolo non potevano ancora annoverare tra gli effetti perversi dell’uniformità colturale una minore capacità di far fronte ai cambiamenti climatici.

A questa conclusione, invece, sono giunti i ricercatori che hanno scritto “Crop diversity buffers the impact of droughts and high temperatures on food production”, pubblicato a giugno 2023 sulla rivista Environmental research letter. Attraverso l’analisi di 58 anni di dati su clima, produzioni e redditi di 109 colture in 127 Paesi, gli autori affermano che “una maggiore diversità delle colture riduce gli impatti negativi della siccità e delle alte temperature sulle produzioni agricole”, evidenziando “il potenziale non ancora sfruttato della diversità delle colture per una maggiore resilienza alle condizioni meteorologiche”.

Sono state 109 le colture prese in esame per un periodo di 58 anni in uno studio scientifico dedicato agli impatti dell’agrodiversità su siccità e aumento delle temperature.

Insomma, in pieno antropocene e in balia dei cambiamenti climatici il settore agricolo non può più nascondersi. Deve accettare la responsabilità di essere uno dei maggiori responsabili della crisi odierna, e allo stesso tempo prendere su di sé la sfida di svolgere un nuovo ruolo per favorire la sua transizione agroecologica. Si tratta di un passaggio non facile. Anni di ubriacatura tecnologica, basati sull’illusione del progresso unidimensionale dei modelli agricoli hanno creato un baratro culturale che è difficile recuperare in così poco tempo.

Passare dal dogma dell’uniformità e della monocoltura alla diversità richiede un processo sociale, economico, tecnico, scientifico, culturale e politico di cambiamento che avrà vincitori e vinti. Un processo che dovrà ridistribuire il potere all’interno delle filiere alimentari e anche nella ricerca agricola. Non si tratta solo di democratizzare o spezzare monopoli e oligopoli economici, ma di decolonizzare le nostre menti.

Realizzare che il progresso agricolo non è una linea retta che va dal passato al futuro, dai contadini agli imprenditori agricoli, dall’agricoltura familiare a quella capitalistica, è innanzitutto un processo culturale. Tante sarebbero le strade e i modelli possibili se avessimo la capacità di ascoltare le innovazioni che nascono nei diversi territori, cercando soluzioni fuori dai percorsi già battuti, e aprendo le nostre realtà sociali alla reciproca contaminazione.

 Fonte: Semi Rurali (Tratto da Altreconomia 263 – Ottobre 2023)