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<div style="text-align: justify;">''Anche i prodotti biologici provenienti da Argentina,
Australia, Costa Rica, Nuova Zelanda, Israele e molti altri Paesi
potranno utilizzare il 'marchio comunitario', che richiama la nota
bandiera europea di colore blu con il cerchio di stelle e che ha
contraddistinto sino ad oggi esclusivamente le produzioni biologiche
nazionali ed europee. Un inganno per i consumatori dell'Unione sulla
reale provenienza degli alimenti biologici acquistati''. <br>E' quanto
denuncia la Coldiretti nel rendere noti gli effetti del Regolamento
Comunitario N.392/2004 che permette l'utilizzo del logo comunitario
dell'agricoltura biologica anche sulle confezioni dei prodotti
importati da Paesi extracomunitari assoggettati a condizioni
equivalenti di controlllo. Si tratta - sostiene la Coldiretti - di una
decisione che rischia di confondere i cittadini sulla reale provenienza
dei prodotti acquistati e che vanifica gli sforzi compiuti dagli
imprenditori per valorizzare l'origine territoriale degli alimenti
biologici. E’ - continua la Coldiretti - risulta ancora piu' grave per
la produzione biologica italiana che, a differenza degli altri Paesi,
non e' identificabile sul mercato da un marchio nazionale. Mentre
Francia, Germania, Austria, Belgio, Svizzera, Olanda, Svezia e
Danimarca hanno infatti da tempo adottato un marchio per distinguere le
proprie produzioni, in ltalia - afferma la Coldiretti - si registra un
pericoloso ritardo nella individuazione e promozione di un marchio
collettivo nazionale da utilizzare per segnalare l'origine italiana del
prodotto, a garanzia degli operatori e dei consumatori che vogliono
conoscere la provenienza territoriale degli alimenti. Un ritardo che -
sostiene la Coldiretti - deve essere al piu' presto colmato per
garantire trasparenza in un settore che e' entrato nelle abitudini
alimentari degli italiani, come conferma l'ingresso per la prima volta
dei cereali biologici nel paniere 2044 dei prodotti Istat per valutare
l'andamento dei prezzi nei beni consumati dagli italiani e l'andamento
dell'inflazione nel Paese. Nel 2003, secondo l'indagine
Coldiretti-Ispo, otto italiani su dieci hanno acquistato alimenti
biologici, con un aumento del 24 % rispetto al 2002, secondo un
orientamento favorito dal ''timore degli alimenti transgenici'' e dalla
ricerca di maggiori garanzie qualitative. E il fatturato nazionale
complessivo del settore ''bio'' e' stimabile in 1,6 miliardi di Euro
con una spesa ''bio di circa 80 Euro/anno per famiglia, destinata -
sottolinea la Coldiretti - per il 26% a latte e derivati, per il 16% a
frutta e verdura, per il 10% a dolcificanti e integratori, per il 9%
rispettivamente a pane, pasta e riso e a bevande, per l'8% a biscotti e
dolci, per il 6% rispettivamente a prodotti per l'infanzia, uova e
condimenti ed il resto per gelati, surgelati e altro. A riconoscere il
biologico - continua la Coldiretti - sono soprattutto consumatori
maschi, single, laureati, tra i 40 e i 49 anni, che risiedono nel nord
Italia, svolgono un lavoro autonomo ed hanno un livello socio-economico
elevato. Se questo e' l'identikit del consumatore bio, l'imprenditore
agricolo di biologico secondo uno studio della Coldiretti ha meno di 45
anni (66,6%), e' soddisfatto della propria posizione professionale
(70%), e' donna (20,3%) ha una esperienza di soli 2-3 anni nella
gestione agricola (46%) ed e' per l'1% straniero. Sul piano della
produzione l'Italia - afferma la Coldiretti - e' leader in Europa:
oltre una impresa biologica europea su tre e' italiana (37,7%) e la
superficie nazionale coltivata a biologico rappresenta piu' di un
quarto (27,7%) del totale coltivato a livello comunitario. In Italia -
conclude la Coldiretti - sono presenti oltre 51.400 imprese agricole
impegnate nel biologico con la coltivazione di quasi un milione 170
mila ettari destinati a foraggio, cereali, olivi, viti, agrumi, frutta,
ortaggi e l'allevamento di 164 mila bovini, 660 mila pecore e capre,
quasi 20 mila maiali e circa 940 mila tra polli e conigli. <br><b>Il commento di Duca Lamberti</b><br>
Coldiretti fa un mucchio di cose buone, di cui diamo regolarmente atto
sulle nostre pagine.
Ma ha un ufficio stampa in preda a una perpetua e irrefrenabile fregola
di intervenire sull’universo mondo, anche a sproposito, come in questo
caso.
Il marchio biologico europeo non è un marchio di origine, è un marchio
di conformità.
Un frigorifero General Electric costruito negli Stati Uniti può
benissimo esibire l'Ecolabel europea che attesta una produzione
co-compatibile, una Hyundai fabbricata in Corea può benissimo sfoggiare
la sua confronità alla norma Euro 4 sull'emissione di gasi inquinanti.
E, allo stesso modo, i prodotti biologici ottenuti nel rispetto del
regolamento 2092/91, successive modifiche e integrazioni, ovunque anche
fuori dei confini dell’Unione, financo nell’esotica Svizzera hanno il
diritto di vedersi riconoscere questa conformità e di fregiarsi del
marchio.
Detto marchio non attesta che il prodotto è stato coltivato all’interno
dei sacri confini (così come l'ecolabel sui frigoriferi non sta a dire
che sono stati fatti a Viterbo e il marchio Euro 4 non significa che la
Hyunday Galloper è uscita da una catena di montaggio a Poggibonsi), ma
attesta che (sotto il controllo di organismi autorizzati e di autorità
competenti) si è operato in modo assolutamente conforme alle norme
europee.
Così come accade ai prodotti delle aziende italiane che a New York
mostrano in etichetta il marchio Organic del National Organic Program
di proprietà del Dipartimento di stato statunitense dell’agricoltura, o
che a Tokyo esibiscono il marchio Jas Japanese Agricultural Standard,
di proprietà del ministero giapponese.
Tutto il resto è truffa.
Al consumatore europeo che cerca un prodotto biologico, il marchio
europeo assicura che quello che ha in mano è giustappunto un prodotto
biologico, punto e a capo.
Ma andiamo avanti col ragionamento.
L’unico ingrediente agricolo della pasta italiana (che qualcuno
vorrebbe pure tutelare e sostenere nel mondo) è il grano duro di
produzione canadese o australiana, l’unico altro ingrediente è l’acqua
(e le trafile sono in Teflon® della Dupont…).
Che facciamo, togliamo alla pasta fatta in Italia il marchio europeo?
Metà degli ingredienti della marmellata d’arance siciliana, quando non
è costituita da zucchero di barbabietola che arriva dalla Francia o
dalla Germania, è costituita da zucchero di canna del Sud America.
Lasciamo senza marchio europeo i trasformatori agrumari siciliani?
Perché Coldiretti rompe le scatole solo a noi, ingenerando dubbi
gratuiti tra i consumatori, e non le rompe anche ai macellai dell’Alto
Adige e della Valtellina o ai fornai del ferrarese?
Si mobiliti e scriva a tutti i sindaci sud tirolesi per impedire che
per lo Speck Alto Adige (a Indicazione Geografica) si usi coscia
disossata di suino dal Belgio o dalla Cina.
Raccolga firme per bandire dalla Bresaola della Valtellina (a
Indicazione Geografica) la coscia di bovino fra i due e i quattro anni
che arriva dall'Argentina.
Picchetti con i trattori tutti i forni ferraresi, che per produrre la
ciupeta (a Indicazione Geografica) utilizzano con la benedizione della
legge nazionale e dei regolamenti europei farina di grano tenero del
Kazakhistan o dell’Ucraina, strutto di maiale dal Brasile o dalla Cina,
olio extra vergine della Puglia o della Tunisia. L’unico ingrediente
ferrarese (forse, dato che il disciplinare non lo precisa) è l’acqua.
Forse non è “un inganno” usare ingredienti “globali” per prodotti a
“indicazione geografica”, spacciati al consumatore per tipici e legati
al territorio?
Venendo al marchio nazionale.
Le aziende, che non sono stupide, non lo vogliono.
L’Italia è esportatrice netta: qualsiasi barriera protezionistica e
nazionalistica va contro gli interessi del nostro sistema di imprese.
I marchi nazionali che qua e là esistono (per legge, come in Danimarca,
o come standard di fatto, per l’abitudine del consumatore, come in Gran
Bretagna) si traducono in ostacoli per le nostre aziende, costrette a
sopportare l’onere di inutili check-list e a pagare royalties per una
ri-certificazione a chi vorrebbe essere il monopolista della
credibilità biologica nei diversi mercati.
Alle imprese (e alle nostre in particolare) serve un forte marchio
europeo, e che i marchi nazionali, residui del bio-colonialismo
(quando, negli anni 70, erano i tedeschi e i francesi a decidere cos’a
fosse biologico, in tutto il mondo) vadano diritti in soffitta.
<br><i>Fonte di informazione:</i> (ASCA) </div>